Inquinamento: oltre i polmoni, si ammala anche il fegato

14 Marzo 2024

Una ricerca dell’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola appena pubblicata sulla rivista “Digestive and Liver Disease” associa l’esposizione a pesticidi e inquinanti sul luogo di lavoro allo sviluppo di malattie epatiche avanzate e carcinomi del fegato. 

L’esposizione prolungata per diversi anni ad alcuni inquinanti presenti nei luoghi di lavoro è correlata ad una maggiore probabilità di incorrere in gravi malattie del fegato. È quanto emerge da uno studio pilota condotto dall’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola - in collaborazione con l’Università di Bologna, l’Istituto Ramazzini e l’Università di Ferrara – e pubblicato di recente sulla rivista “Digestive and Liver Disease”. Secondo i risultati della ricerca, sostenuta dal Ministero della Salute con un finanziamento da 288mila euro, i lavoratori rimasti a contatto per più di vent’anni con coloranti, metalli, refrigeranti alogenati ed emissioni dei gas di scarico hanno mostrato una maggiore propensione allo sviluppo di malattie epatiche avanzate e carcinomi del fegato. 

“Non vogliamo suscitare allarmismi – premette Francesco Tovoli, ricercatore dell’unità operativa di Medicina Interna, Malattie Epatobiliari e Immunoallergologiche diretta dal professor Fabio Piscaglia – per confermare questa associazione e soprattutto per stabilire una correlazione causa-effetto con specifici inquinanti servono ulteriori studi multicentrici. Ma, nel nostro piccolo, questo studio ha dimostrato che in determinate condizioni l’esposizione a inquinanti può costituire un ulteriore fattore di rischio. L’obiettivo ultimo è quello di prevenire future forme di cancro e cirrosi”.

La ricerca, condotta in collaborazione con l’unità operativa di Medicina del Lavoro diretta dal professor Francesco Saverio Violante, si è concentrata in particolare sui pazienti affetti da steatosi epatica o – come è più comunemente nota - da “malattia del fegato grasso”. Si tratta di una condizione molto comune (a tal punto da interessare almeno il 25-30% della popolazione globale), caratterizzata per l’appunto dall’accumulo di grasso del fegato. Nella stragrande maggioranza dei casi non si manifesta con sintomi evidenti, mentre più raramente la sua progressione può portare a steatoepatite (infiammazione del fegato), fibrosi e, infine, allo sviluppo di cirrosi epatica e di carcinoma epatocellulare. 

Tra il marzo 2018 e il febbraio 2021 lo studio ha dunque arruolato 201 persone con diagnosi di steatosi epatica, dividendoli poi in due gruppi: i pazienti con complicazioni (malattie epatiche avanzate o carcinoma epatocellulare) e pazienti senza complicazioni. Attraverso la compilazione di un apposito questionario, i ricercatori hanno quindi raccolto informazioni circa le abitudini di vita, la storia lavorativa e l’esposizione a sostanze tossiche, tanto sul luogo di lavoro quanto a casa. “La tossicità epatica di diversi inquinanti è cosa nota e dimostrata in laboratorio – spiega Tovoli -  Secondo lo “United States National Institute for Occupation Safety and Health” il 33% delle sostanze chimiche più comunemente utilizzate sui luoghi di lavoro è associato a tossicità epatica. Ma finora questo rischio non era ancora stato valutato a livello clinico. Noi abbiamo cercato di colmare questa lacuna non per demonizzare alcun settore produttivo, ma con l’obiettivo di facilitare lo sviluppo di strategie di prevenzione e diagnosi precoce per le persone a rischio, dal momento che si tratta di sostanze non facili da evitare completamente”.

Risultato: dei pazienti con complicanze, il 27% è stato esposto a lungo termine a coloranti, pigmenti, vernici e resine (contro il 14% dei pazienti senza complicanze), il 20% a gas di scarico (contro il 9% del secondo gruppo), il 33% a solventi (contro il 21%) e, soltanto per fare un altro esempio, il 44% a metalli (contro il 14%). Insomma, come si legge nelle conclusioni: i dati “supportano l’ipotesi di effetti dannosi dell’esposizione pluridecennale a sostanze tossiche sul posto di lavoro dei pazienti con steatosi epatica”.